venerdì, dicembre 16, 2011

 

Educazione sessuale ed affettività

Ho letto, domenica scorsa (sul settimanale "Il Caffè") della facilità e frequenza con cui le adolescenti, in età sempre più precoce, ricorrano all'aborto. La cosa non mi ha stupito perché, vivendo in mezzo ai giovani e ricevendo spesso - sia come consulente familiare, sia come parroco - le loro confidenze, da anni assisto all'abbassarsi dell'età del primo rapporto completo e, all'alzarsi della possibilità della frequenza di gravidanze non desiderate. Quello che avrei desiderato trovare in quella pagina è un più forte richiamo al senso di responsabilità etica, perché di fronte a problemi come quelli che si pongono ai giovani d'ambo i sessi, ma specialmente alle ragazze - quando vengono a sapere che una vita non desiderata sta iniziando in loro - non sono né pochi, né semplici. L'esperienza mi dice che la maggior parte di loro vivono le proprie esperienze sessuali con una grande superficialità: tutto è lecito, perché - dicono - tutti lo fanno. E se non lo fai - dice il ragazzo spesso più grande di lei - allora sei retrograda, bigotta, fuori dal mondo! Oppure ricorrono al ricatto: "Fallo o ti lascio".
Ma quando scoprono che la ragazza è incinta, spesse volte, la lasciano apostrofandola pesantemente: "Se l'hai fatto con me tanto facilmente, chissà con quanti l'hai fatto. Sei una puttana".
I genitori spesso sono latenti e, proprio per una mancanza di educazione affettiva e di autorità, spingono indirettamente i figli ad esperienze sessuali più impegnative della loro età.
La scuola si ferma a dare delle nozioni fisiologiche e a consigliare gli anticoncezionali, pur sapendo che la maggior parte degli adolescenti non li prendono o li usano male. Un discorso di reponsabilità, di attesa per un gesto che dovrebbe esigere una maturità affettiva, non lo fa nessuno. Anche la Chiesa troppo spesso fa "predicozzi" solo moralistici e proibizionistici. Quando si scopre la gravidanza, unica soluzione: l'aborto, anche contro la volontà degli interessati. So benissimo che ogni caso è a se stante, ma ricordare degli impegni etici in una società permissivistica come la nostra, mi sembra un dovere di chi scrive settimanalmente una Etic(hett)a e lavora coi giovani e per i giovani.

Continuando il discorso, ricordo che quando - parecchi anni fa - iniziai a sostenere l'educazione sessuale ai fanciulli ed adolescenti in famiglia e a scuola, fui duramente attaccato da un certo ceto di supercattolici. Questi arrivarono a dire e a scrivere che sostenevo l'aborto, cadendo in perfetta contraddizione perché, proprio attraverso una corretta educazione sessuale basata su principi etici, si possono diminuire gli aborti. Oggi, di questa educazione, ne sono più convinto che mai, soprattutto in una società che presenta alla gioventù una sessualità puramente edonista, specie attraverso alcune reti televisive italiane, internet e affini.
A mio modesto avviso bisogna insistere, specie con gli adolescenti e giovanissimi, che la vita sessuale deve appoggiarsi su tre cardini: la libertà, la responsabilità e l'affettività. Quando parlo di libertà non intendo solo assenza di ricatti, come ho detto nell'ultima etic(hett)a, ma anche di libertà psicologica che deve permettere ad un giovane di dare giudizi negativi ad una sessualità ostentata, mercificata, esibita come una delle qualità più prestanti dell'essere umano.
La responsabilità deve aiutare il giovane a dare ad ogni atto il suo giusto valore, non solo per il piacere che procura, ma anche per gli effetti che può produrre. Da colloqui che ho coi giovani, mi accorgo che questo senso di responsabilità, in parecchi di loro, è assente per molte loro attività: studio, circolazione, amicizie e, purtroppo, anche atti sessuali altamente impegnativi.
Affettività: una sessualità senza affettività, a mio modesto avviso, è parente della prostituzione. Il rapporto affettivo passa attraverso diverse fasi: conoscenza, amicizia, affetto che devono sostenere anche l'attività sessuale perché solo se diventa manifestazione di sentimenti profondi e duraturi è garanzia di arricchimento e di crescita verso una maturità, femminile e maschile, che porterà alla genitorialità. So che queste mie posizioni non sono condivise da coloro che predicano e praticano il sesso soltanto ludico, ma le manifesto pubblicamente per quell'amore che ho per una nostra gioventù libera, responsabile e veramente capace d'amare.

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domenica, luglio 24, 2011

 

Estrema unzione

Qualche mio gentile lettore avrà certamente pensato che il tema continuato, scelto per quest'estate, non è tra i più allegri anche se tra i più attuali. Se la malattia terminale viene eccessivamente privatizzata, e la conseguente morte troppo scongiurata, è perché noi occidentali abbiamo un pessimo rapporto col momento finale della nostra esistenza fisica. Il tutto fa parte di una tappa dalla quale "nullo homo vivente può scappare", come diceva San Francesco d'Assisi, che pur chiamava la morte col dolce nome di "sorella" e lodava Dio per coloro che sopportavano in pace "infermitate et tribolazione". Malgrado ciò vorrei ancora insistere sul dovere che tutti abbiamo di assistere, curare, vegliare sui nostri ammalati gravi. Spesso vengono ospedalizzati e, se in tutte le nostre case di cura trovano personale medico ed infermieristico che s'interessa di loro in modo veramente professionale, ciò non basta per sollevarli ed eventualmente accompagnarli all'ultimo passo.
È indispensabile una presenza affettiva dei parenti che dia loro la sicurezza di essere sempre amati e non l'impressione di essere dimenticati perché non sono più attivi e produttivi.
Per i cattolici ci sono i così detti "conforti religiosi" che, purtroppo, vengono chiamati con nomi fuorvianti la loro funzione, quale per esempio: "Estrema unzione" invece che "Sacramento degli infermi". Come dice quest'ultimo nome, si tratta di un segno sacro per impetrare la guarigione dell'infermo o, almeno, il suo conforto spirituale. Quindi va dato ad un ammalato cosciente e consenziente; se questo poi è grave, e non vi è più una speranza di guarigione, gli si propone il "Viatico" che, come dice il nome è un conforto per aiutarlo a passare dalla vita attuale alla vita eterna. Evidentemente questo è un discorso di fede che domanda, almeno, la capacità di distinguere tra esistenza fisica, che per sua natura si conclude con la morte del corpo, e la vita che continua in modo diverso, ma non meno reale.

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domenica, luglio 17, 2011

 

Scelte di vita

Continuando il discorso sull'assistenza ai malati terminali, tenendo sempre presente il documento dei cristiani tedeschi, poniamoci qualche altro interrogativo. Il continuo progresso della medicina fa sorgere dei punti di domanda che in passato non si ponevano; per esempio: "Bisogna approfittare di tutte le possibilità di conservazione della vita in ogni sua fase o si deve rinunciare quando il suo prolungamento rischia di condurre, o ha già condotto, ad una fase di non ritorno?".
Che cosa è meglio: "Morire nel proprio ambiente familiare, anche se in esso non sono sempre presenti tutte le possibilità tecniche della medicina, e questo può determinare un abbreviamento della vita, o vivere il più a lungo possibile in una unità di cura intensiva?".
Non è sempre possibile rispondere in termini generali a domande del genere, dicono i cristiani tedeschi.
Bisogna quindi essere cauti e ritenere che in casi concreti sia richiesto, dal punto di vista cristiano, un unico trattamento. In ultima analisi bisogna decidere partendo dalla situazione concreta della persona morente, dai suoi bisogni e in accordo coi suoi desideri e le sue convinzioni. Tutto questo parte dal principio che per il cristiano la vita è un dono di Dio; Egli ci dona la capacità di configurarla in modo responsabile in tutte le sue fasi. Ne fa parte anche il fatto di prendere decisioni sia per la vita attiva, sia per la morte. Sino alla fine, la vita deve essere sentita come degna di essere vissuta, e ciò significa poter partecipare a ciò che avviene in famiglia, nel proprio ambiente di vita e nel mondo. L'ammalato potrà prendere decisioni, avrà tempo per riflettere e chiarire determinate questioni; congedarsi dalle persone che ama e dalle cose importanti e imparare ad accettare la propria morte. Tutto questo costituisce spesso un processo difficile. La terapia del dolore, la medicina palliativa, le norme in materia di assistenza, l'accompagnamento spirituale e sociale possono e devono creare i presupposti per poter vivere in dignità anche l'ultimo momento.

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domenica, luglio 10, 2011

 

Eutanasia

Quando per un ammalato terminale si parla di rinuncia all'accanimento terapeutico non s'intende assolutamente l'aiuto alla soppressione della vita, il così detto suicidio assistito.
Con questa espressione si intende l'assistenza prestata a una persona per l'esecuzione del suicidio o fornendo i mezzi atti a procurare la morte o istruendola sulla loro utilizzazione. Questo aiuto non si limita alla fase immediatamente precedente alla morte.
Oggi spesso viene offerto già dopo la diagnosi di una malattia grave o la prognosi di un decorso doloroso di una malattia. In altre parole tecniche, è lecita l'eutanasia indiretta, cioè lenire i dolori anche con mezzi che avvicinano al trapasso, e non è moralmente lecita l'eutanasia diretta, cioè di procurare direttamente la morte anche se da noi, in Svizzera, non vi è una legge chiara, così che parecchie persone si affidano a delle società che esercitano impunemente l'eutanasia diretta, cioè il suicidio assistito. So benissimo che su questo punto vi è un dibattito molto forte.
Anche se un domani dovesse passare una legge che in Svizzera permettesse l'eutanasia diretta, il cristiano ha sempre l'obbligo di non accogliere questa facilitazione a sopprimere la propria vita. È vero che siamo in una società non solo pluralista, bensì pluri-etica, con diverse impostazioni morali, ma per tutti se la vita non è una cosa sacra è perlomeno una cosa preziosa.
In simile società non si può pretendere che le leggi civili seguano sempre i dettami di una religione. Tuttavia la legge non può andar contro ai principi religiosi di una persona: quindi una legge non potrà mai obbligare a procurare una morte diretta anche se, a chi lo ritiene, lo può permettere.

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martedì, giugno 28, 2011

 

Sentenze

Come da diversi anni a questa parte, durante l'estate dedico alcune etic(hett)e ad un unico tema così da poterlo sviluppare. Quest'anno avrei scelto le attenzioni che bisogna dare agli ammalati terminali, tema di attualità. All'inizio dell'anno le Chiese cristiane in Germania, quindi la Conferenza Episcopale Cattolica tedesca e il Consiglio della Chiesa Evangelica e altre Comunità che si riconoscono nella dottrina di Cristo, hanno prodotto un interessantissimo documento partendo da questa premessa. Oggi molte persone si preoccupano dell'ultima fase della loro vita, per esempio, l'insorgere di una malattia o l'età avanzata; a volte la paura di un incidente. Fra costoro parecchi sono indotti a chiedersi: "Alla fine della mia vita avrò accanto delle persone disposte ad assistermi e a incoraggiarmi? Potrò morire in casa, o sarò condotto in un ospedale, avrò dolori insopportabili, sarò in grado di decidere personalmente quali cure mediche accettare e quali rifiutare?". Per rispondere a questi interrogativi, il documento emanato da queste Chiese inizia con un consiglio pressante: "Noi ti consigliamo di designare una persona di tua fiducia che ti conosce personalmente e alla quale puoi affidare il compito di rappresentare e perseguire i tuoi desideri e interessi nel campo delle cure mediche ed alle questioni ad esse collegate. La persona di tua fiducia deciderà al tuo posto, insieme ad altri, nel caso in cui tu stesso non sia più in grado di farlo". Personalmente aggiungerei un'altra cosa: proprio a questa persona di fiducia dovrebbe essere dato il compito di accogliere le sentenze mediche in fase terminale. Ho avuto modo di tenere diverse conferenze su questo argomento. L'ammalato è grave ma ancora cosciente, è giusto che il medico gli dica in modo diretto, chiaro e tondo che ormai non c'è più niente da fare e che l'unica cosa che lo aspetta è la morte? Su questo interrogativo ci sono idee diverse. Ancora ultimamente ho sentito casi di medici che senza passare attraverso i parenti, hanno detto chiaramente all'ammalato del suo stato, minando così anche le sue difese psicologiche.

Continuando il discorso sugli ammalati terminali, iniziato domenica scorsa e riprendendo lo spunto dal consiglio dato dai cristiani tedeschi di nominare una persona di fiducia che riceva le confidenze (o sentenze) mediche, ritengo che la prima cosa, che i parenti o la persona designata debbono dire al medico quando sospettano che si è giunti a una fase di non ritorno, è che desiderano essere loro informati prima di qualsiasi altro, anche dello stesso infermo e poi trovare da soli o insieme col medico il modo di parlare con l'interessato.
Non credo nel modo più assoluto che una presunta sincerità, che a mio modo di vedere diventa crudeltà, possa giovare all'infermo. Può essere vero che il medico sappia quando un ammalato ha ancora poco da vivere, però togliere completamente la speranza, che sorregge anche le difese psicologiche, non mi sembra giusto soprattutto se non si passa attraverso la mediazione di parenti stretti o di persone designate che conoscono quali possano essere le reazioni di un ammalato terminale. Ho visto più volte persone lottare fino in fondo con la speranza, se non di guarire, almeno di migliorare; perché deluderli? Inoltre, come cristiani, l'ammalato potrebbe anche sentire il bisogno di chiedere i conforti religiosi. Quindi va rispettato anche questo suo desiderio che alle volte viene espresso negli ultimi tempi della propria vita. Ecco perchè il consiglio di una persona, che prenda le veci di parenti se questi non esistono, sono lontani o non hanno il coraggio di comunicare simile notizia, mi sembra importante. Questo compito mi è più volte capitato e vi assicuro che non è facile, si tratta innanzitutto di conquistare la fiducia dell'infermo - oltre a quella già conquistata dai parenti - ma è un compito umanissimo che per me, quale sacerdote e frate (fratello), rientra nella mia vocazione.

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domenica, giugno 12, 2011

 

Bellinzona sì, Bellinzona no?

Bellinzona non è mai stata una città turistica, almeno fino a qualche anno fa, quando iniziò ad attirare persone per ammirare i suoi castelli dichiarati patrimonio dell'umanità dall'Unesco. Questa quasi assenza del turismo portò alla città evidenti vantaggi, per esempio quello di aver salvaguardato il centro storico. Ma ha avuto anche degli svantaggi, quello di non essere stata scelta come sede di prestigiosi istituti internazionali, perché meno nota di Lugano. Ora che una sede di ricerca - l'IRB - si vuole istallare, un gruppetto di cittadini (fra i quali anche dei non bellinzonesi di origine e di nascita) la vuole ostacolare. Conosco Matteo Cheda e veramente mi rincresce che definisca me ed i miei concittadini dei polli che si lasciano ingannare dal Municipio e dal Consiglio Comunale. Un minimo di dignità ci vuole anche in una polemica che pur si svolge in modo duro. Noi del comitato di sostegno organizziamo delle conferenze di alto livello per sensibilizzare i bellinzonesi su cosa perderebbero, lui ci taccia di polli!
Ma perché inserisco il tema dell'IRB in un'etic(hett)a che verrà letta non solo dai bellinzonesi? Prima di tutto perché amo questa città che mi ha cresciuto e nella quale da oltre 25 anni sono guida spirituale di una delle sue parrocchie, quella numericamente più forte. Inoltre perché questo settimanale è molto letto in tutto il Ticino, quindi anche da persone non bellinzonesi, parecchie delle quali avranno parenti ed amici nella nostra città. Se è possibile facciano presente a costoro che i prossimi giorni dovranno essere i "giorni del SÌ" per promuovere il futuro di Bellinzona, aderendo così all'idea di tutte le autorità comunali, di tutte le sezioni dei partiti cittadini e di molte associazioni sul nostro territorio. Il sostegno all'Istituto di ricerca in biomedicina può essere esercitato anche indirettamente, consigliando in positivo (di votare SÌ) a chi ha il diritto e il dovere di sostenerlo direttamente col proprio voto.

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mercoledì, giugno 08, 2011

 

Comunità Familiare

Si era nella primavera del 1971. Un gruppo di giovani coppie, da me invitate, si ritrovava nel convento di Bigorio appena restaurato. Non era la prima volta che vi salivano. Parecchie di loro vi avevano fatto dei corsi in preparazione al matrimonio, ma quella volta era un'occasione speciale. Le coppie, provenienti da tutto il Ticino, avevano una grande voglia d'impegnarsi per il bene della famiglia e di aprire anche nel nostro paese uno di quei centri di consulenza che stavano sorgendo nella vicina Lombardia. Aprire un centro voleva dire affittare dei locali, assumere almeno una segretaria, presentarsi con un nome e un'identità al pubblico; in altre parole istituzionalizzarsi. Non erano persone - quelle coppie - che amavano molto incanalarsi entro statuti, ma dovevano fare di necessità virtù. Nacque così Comunità Familiare, un'associazione aperta a tutti coloro che avevano voglia di lavorare nel sociale. Si aprì il progetto consultorio a Lugano. Poi dei gruppi di mamme diedero vita ai Centri assistenza bambini e alle ludoteche. Molti giovani animano ancora oggi delle colonie integrate. Una coppia aprì un "foyer" per bambini e giovani. Parecchi membri iniziarono molto presto a impegnarsi nella lotta contro la droga. Il comitato che nacque in quelle riunioni di Bigorio s'impegnò soprattutto in una politica trasversale ai partiti. Non vi erano progetti di leggi che parlassero di famiglie e socialità che non venissero studiati e, attraverso l'azione di alcuni membri di Comunità Familiare che sedevano in Gran Consiglio, venissero formulate delle proposte. Il segretario generale dell'associazione - il sottoscritto - fu chiamato in diverse commissioni cantonali per la preparazione e il controllo dell'osservanza di queste leggi tutt'ora in vigore. Ecco in sintesi la storia dei 40 anni di vita di Comunità Familiare che, sabato scorso a Primadengo, ha festeggiato il suo quarantesimo. Lunga vita a questa benemerita Associazione che mantiene lo spirito di una grande famiglia.



domenica, maggio 29, 2011


Cristianesimo di convinzione
Molte persone dicono che il cristianesimo come religione è ormai alle corde e che da noi sussiste solo un cristianesimo come cultura. Costoro si chiedono se viviamo in una società che in Occidente si chiama ancora cristiana, quando i precetti fondamentali del cristianesimo vengono sistematicamente disattesi. Inoltre sembra che la pratica religiosa stia scendendo sempre di più. Ma proprio in questa società secolarizzata e laicizzata - uso questi termini in senso negativo, pur cosciente che hanno una valenza anche positiva - sta rinascendo un cristianesimo di adesione e di convinzione. Un esempio di questa rinascita la sto notando nella mia chiesa, dove noto un aumento di partecipazione alla Messa da parte degli uomini. Se prima alle Messe si avevano quasi esclusivamente donne, ora capita che gli uomini sono al 50% e, la scorsa estate - alle volte -, superavano addirittura il numero delle donne.
Questo cosa vuol dire?
Per me, che sta cessando un cristianesimo di tradizione, durante il quale la partecipazione alla Messa domenicale era appannaggio quasi unicamente femminile, per dar posto a un cristianesimo di convinzione, dove anche l'uomo sente la necessità di ritrovarsi in Comunità, di ascoltare la parola di Dio, di celebrare l'Eucarestia ricevendo la Comunione.
Altro esempio: è vero che non si battezzano più tutti i neonati, ma è altrettanto vero che aumentano i battesimi degli adulti, fatti con più preparazione e convinzione di quello che parecchi genitori fanno ancora quando chiedono il Battesimo dei loro figli, dimostrando che per loro il rito è una specie di magia, invece di essere una tappa di impegno ed un rinnovamento del proprio cristianesimo. Diminuiscono anche i matrimoni in chiesa, ma i fidanzati che incontro nei corsi di preparazione s'impegnano ad approfondire il senso del sacramento e a celebrarlo con convinzione. Ecco perché con la liturgia mi sento di ripetere "in alto i nostri cuori".
La speranza è l'ultima cosa che può morire e, anche se morisse, è pronta a risorgere.

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domenica, maggio 22, 2011

 

Conoscere Gesù

Uno dei miei chiodi fissi è che il più grande peccato dei cristiani sia l'ignoranza. Ma non l'ignoranza su questa o quella verità di fede, ma proprio sulla vita e persona del fondatore stesso del cristianesimo: Gesù di Nazareth detto il Cristo.
Ne volete una prova?
Sai dirmi tu cosa vuol dire la parola "Cristo", e perché la si applica a Gesù?
Per vincere questa ignoranza ho scritto dei libri; il primo sulla sua vita "per dubbiosi e non credenti" che è stato un vero bestseller, 5000 copie vendute nel solo Ticino. Ora - essendo esaurita l'edizione ticinese - è uscita l'edizione italiana (Ed. Messaggero di Padova) che è molto più bella e che sta andando bene. Dopo il libro sulla sua vita, quello sulle sue parabole e un terzo sui miracoli, nonché uno sugli "Atti degli apostoli"; tutti questi libri si possono comandare direttamente da me o presso le librerie ticinesi.
Sempre per una migliore conoscenza di Gesù, questa sera alle ore 20 presso il centro Spazio Aperto a Bellinzona, inizierà un ciclo di tre serate durante il quale sarà presentata la sua persona attraverso degli schemi ma, soprattutto, attraverso l'ausilio di quel capolavoro cinematografico che è "Il Vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini. Questa sera parleremo dell'infanzia di Gesù e confronteremo ciò che scrive l'evangelista Matteo con il racconto - più noto - quello dell'evangelista Luca.
Domenica prossima, 29 maggio, il tema sarà: "Gesù Maestro", la sua vita pubblica la sua predicazione e azione. Domenica 5 giugno si proietterà e spiegherà la sua passione (processo, tradimento), morte e resurrezione. Le serate sono aperte a tutti, un invito particolare ai giovani dubbiosi e non credenti.
Qualcuno potrebbe domandarsi: perché proprio alla vigilia delle vacanze estive quest'iniziativa? Volutamente! Durante le vacanze c'è più tempo di leggere. Chi sa se qualcuno, al mare o in montagna, invece di passare il suo tempo sfogliando riviste che esaltano poco encomiabili gesta amorose di vips, volesse approfondire il messaggio d'amore di Colui che è venuto sulla terra ad insegnare agli uomini che il primo comandamento è:
"Amerai il Signore Dio tuo"
e il secondo:
"Amerai il prossimo tuo come te stesso".

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