domenica, luglio 24, 2011

 

Estrema unzione

Qualche mio gentile lettore avrà certamente pensato che il tema continuato, scelto per quest'estate, non è tra i più allegri anche se tra i più attuali. Se la malattia terminale viene eccessivamente privatizzata, e la conseguente morte troppo scongiurata, è perché noi occidentali abbiamo un pessimo rapporto col momento finale della nostra esistenza fisica. Il tutto fa parte di una tappa dalla quale "nullo homo vivente può scappare", come diceva San Francesco d'Assisi, che pur chiamava la morte col dolce nome di "sorella" e lodava Dio per coloro che sopportavano in pace "infermitate et tribolazione". Malgrado ciò vorrei ancora insistere sul dovere che tutti abbiamo di assistere, curare, vegliare sui nostri ammalati gravi. Spesso vengono ospedalizzati e, se in tutte le nostre case di cura trovano personale medico ed infermieristico che s'interessa di loro in modo veramente professionale, ciò non basta per sollevarli ed eventualmente accompagnarli all'ultimo passo.
È indispensabile una presenza affettiva dei parenti che dia loro la sicurezza di essere sempre amati e non l'impressione di essere dimenticati perché non sono più attivi e produttivi.
Per i cattolici ci sono i così detti "conforti religiosi" che, purtroppo, vengono chiamati con nomi fuorvianti la loro funzione, quale per esempio: "Estrema unzione" invece che "Sacramento degli infermi". Come dice quest'ultimo nome, si tratta di un segno sacro per impetrare la guarigione dell'infermo o, almeno, il suo conforto spirituale. Quindi va dato ad un ammalato cosciente e consenziente; se questo poi è grave, e non vi è più una speranza di guarigione, gli si propone il "Viatico" che, come dice il nome è un conforto per aiutarlo a passare dalla vita attuale alla vita eterna. Evidentemente questo è un discorso di fede che domanda, almeno, la capacità di distinguere tra esistenza fisica, che per sua natura si conclude con la morte del corpo, e la vita che continua in modo diverso, ma non meno reale.

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domenica, luglio 17, 2011

 

Scelte di vita

Continuando il discorso sull'assistenza ai malati terminali, tenendo sempre presente il documento dei cristiani tedeschi, poniamoci qualche altro interrogativo. Il continuo progresso della medicina fa sorgere dei punti di domanda che in passato non si ponevano; per esempio: "Bisogna approfittare di tutte le possibilità di conservazione della vita in ogni sua fase o si deve rinunciare quando il suo prolungamento rischia di condurre, o ha già condotto, ad una fase di non ritorno?".
Che cosa è meglio: "Morire nel proprio ambiente familiare, anche se in esso non sono sempre presenti tutte le possibilità tecniche della medicina, e questo può determinare un abbreviamento della vita, o vivere il più a lungo possibile in una unità di cura intensiva?".
Non è sempre possibile rispondere in termini generali a domande del genere, dicono i cristiani tedeschi.
Bisogna quindi essere cauti e ritenere che in casi concreti sia richiesto, dal punto di vista cristiano, un unico trattamento. In ultima analisi bisogna decidere partendo dalla situazione concreta della persona morente, dai suoi bisogni e in accordo coi suoi desideri e le sue convinzioni. Tutto questo parte dal principio che per il cristiano la vita è un dono di Dio; Egli ci dona la capacità di configurarla in modo responsabile in tutte le sue fasi. Ne fa parte anche il fatto di prendere decisioni sia per la vita attiva, sia per la morte. Sino alla fine, la vita deve essere sentita come degna di essere vissuta, e ciò significa poter partecipare a ciò che avviene in famiglia, nel proprio ambiente di vita e nel mondo. L'ammalato potrà prendere decisioni, avrà tempo per riflettere e chiarire determinate questioni; congedarsi dalle persone che ama e dalle cose importanti e imparare ad accettare la propria morte. Tutto questo costituisce spesso un processo difficile. La terapia del dolore, la medicina palliativa, le norme in materia di assistenza, l'accompagnamento spirituale e sociale possono e devono creare i presupposti per poter vivere in dignità anche l'ultimo momento.

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domenica, luglio 10, 2011

 

Eutanasia

Quando per un ammalato terminale si parla di rinuncia all'accanimento terapeutico non s'intende assolutamente l'aiuto alla soppressione della vita, il così detto suicidio assistito.
Con questa espressione si intende l'assistenza prestata a una persona per l'esecuzione del suicidio o fornendo i mezzi atti a procurare la morte o istruendola sulla loro utilizzazione. Questo aiuto non si limita alla fase immediatamente precedente alla morte.
Oggi spesso viene offerto già dopo la diagnosi di una malattia grave o la prognosi di un decorso doloroso di una malattia. In altre parole tecniche, è lecita l'eutanasia indiretta, cioè lenire i dolori anche con mezzi che avvicinano al trapasso, e non è moralmente lecita l'eutanasia diretta, cioè di procurare direttamente la morte anche se da noi, in Svizzera, non vi è una legge chiara, così che parecchie persone si affidano a delle società che esercitano impunemente l'eutanasia diretta, cioè il suicidio assistito. So benissimo che su questo punto vi è un dibattito molto forte.
Anche se un domani dovesse passare una legge che in Svizzera permettesse l'eutanasia diretta, il cristiano ha sempre l'obbligo di non accogliere questa facilitazione a sopprimere la propria vita. È vero che siamo in una società non solo pluralista, bensì pluri-etica, con diverse impostazioni morali, ma per tutti se la vita non è una cosa sacra è perlomeno una cosa preziosa.
In simile società non si può pretendere che le leggi civili seguano sempre i dettami di una religione. Tuttavia la legge non può andar contro ai principi religiosi di una persona: quindi una legge non potrà mai obbligare a procurare una morte diretta anche se, a chi lo ritiene, lo può permettere.

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