martedì, giugno 28, 2011

 

Sentenze

Come da diversi anni a questa parte, durante l'estate dedico alcune etic(hett)e ad un unico tema così da poterlo sviluppare. Quest'anno avrei scelto le attenzioni che bisogna dare agli ammalati terminali, tema di attualità. All'inizio dell'anno le Chiese cristiane in Germania, quindi la Conferenza Episcopale Cattolica tedesca e il Consiglio della Chiesa Evangelica e altre Comunità che si riconoscono nella dottrina di Cristo, hanno prodotto un interessantissimo documento partendo da questa premessa. Oggi molte persone si preoccupano dell'ultima fase della loro vita, per esempio, l'insorgere di una malattia o l'età avanzata; a volte la paura di un incidente. Fra costoro parecchi sono indotti a chiedersi: "Alla fine della mia vita avrò accanto delle persone disposte ad assistermi e a incoraggiarmi? Potrò morire in casa, o sarò condotto in un ospedale, avrò dolori insopportabili, sarò in grado di decidere personalmente quali cure mediche accettare e quali rifiutare?". Per rispondere a questi interrogativi, il documento emanato da queste Chiese inizia con un consiglio pressante: "Noi ti consigliamo di designare una persona di tua fiducia che ti conosce personalmente e alla quale puoi affidare il compito di rappresentare e perseguire i tuoi desideri e interessi nel campo delle cure mediche ed alle questioni ad esse collegate. La persona di tua fiducia deciderà al tuo posto, insieme ad altri, nel caso in cui tu stesso non sia più in grado di farlo". Personalmente aggiungerei un'altra cosa: proprio a questa persona di fiducia dovrebbe essere dato il compito di accogliere le sentenze mediche in fase terminale. Ho avuto modo di tenere diverse conferenze su questo argomento. L'ammalato è grave ma ancora cosciente, è giusto che il medico gli dica in modo diretto, chiaro e tondo che ormai non c'è più niente da fare e che l'unica cosa che lo aspetta è la morte? Su questo interrogativo ci sono idee diverse. Ancora ultimamente ho sentito casi di medici che senza passare attraverso i parenti, hanno detto chiaramente all'ammalato del suo stato, minando così anche le sue difese psicologiche.

Continuando il discorso sugli ammalati terminali, iniziato domenica scorsa e riprendendo lo spunto dal consiglio dato dai cristiani tedeschi di nominare una persona di fiducia che riceva le confidenze (o sentenze) mediche, ritengo che la prima cosa, che i parenti o la persona designata debbono dire al medico quando sospettano che si è giunti a una fase di non ritorno, è che desiderano essere loro informati prima di qualsiasi altro, anche dello stesso infermo e poi trovare da soli o insieme col medico il modo di parlare con l'interessato.
Non credo nel modo più assoluto che una presunta sincerità, che a mio modo di vedere diventa crudeltà, possa giovare all'infermo. Può essere vero che il medico sappia quando un ammalato ha ancora poco da vivere, però togliere completamente la speranza, che sorregge anche le difese psicologiche, non mi sembra giusto soprattutto se non si passa attraverso la mediazione di parenti stretti o di persone designate che conoscono quali possano essere le reazioni di un ammalato terminale. Ho visto più volte persone lottare fino in fondo con la speranza, se non di guarire, almeno di migliorare; perché deluderli? Inoltre, come cristiani, l'ammalato potrebbe anche sentire il bisogno di chiedere i conforti religiosi. Quindi va rispettato anche questo suo desiderio che alle volte viene espresso negli ultimi tempi della propria vita. Ecco perchè il consiglio di una persona, che prenda le veci di parenti se questi non esistono, sono lontani o non hanno il coraggio di comunicare simile notizia, mi sembra importante. Questo compito mi è più volte capitato e vi assicuro che non è facile, si tratta innanzitutto di conquistare la fiducia dell'infermo - oltre a quella già conquistata dai parenti - ma è un compito umanissimo che per me, quale sacerdote e frate (fratello), rientra nella mia vocazione.

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domenica, giugno 12, 2011

 

Bellinzona sì, Bellinzona no?

Bellinzona non è mai stata una città turistica, almeno fino a qualche anno fa, quando iniziò ad attirare persone per ammirare i suoi castelli dichiarati patrimonio dell'umanità dall'Unesco. Questa quasi assenza del turismo portò alla città evidenti vantaggi, per esempio quello di aver salvaguardato il centro storico. Ma ha avuto anche degli svantaggi, quello di non essere stata scelta come sede di prestigiosi istituti internazionali, perché meno nota di Lugano. Ora che una sede di ricerca - l'IRB - si vuole istallare, un gruppetto di cittadini (fra i quali anche dei non bellinzonesi di origine e di nascita) la vuole ostacolare. Conosco Matteo Cheda e veramente mi rincresce che definisca me ed i miei concittadini dei polli che si lasciano ingannare dal Municipio e dal Consiglio Comunale. Un minimo di dignità ci vuole anche in una polemica che pur si svolge in modo duro. Noi del comitato di sostegno organizziamo delle conferenze di alto livello per sensibilizzare i bellinzonesi su cosa perderebbero, lui ci taccia di polli!
Ma perché inserisco il tema dell'IRB in un'etic(hett)a che verrà letta non solo dai bellinzonesi? Prima di tutto perché amo questa città che mi ha cresciuto e nella quale da oltre 25 anni sono guida spirituale di una delle sue parrocchie, quella numericamente più forte. Inoltre perché questo settimanale è molto letto in tutto il Ticino, quindi anche da persone non bellinzonesi, parecchie delle quali avranno parenti ed amici nella nostra città. Se è possibile facciano presente a costoro che i prossimi giorni dovranno essere i "giorni del SÌ" per promuovere il futuro di Bellinzona, aderendo così all'idea di tutte le autorità comunali, di tutte le sezioni dei partiti cittadini e di molte associazioni sul nostro territorio. Il sostegno all'Istituto di ricerca in biomedicina può essere esercitato anche indirettamente, consigliando in positivo (di votare SÌ) a chi ha il diritto e il dovere di sostenerlo direttamente col proprio voto.

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mercoledì, giugno 08, 2011

 

Comunità Familiare

Si era nella primavera del 1971. Un gruppo di giovani coppie, da me invitate, si ritrovava nel convento di Bigorio appena restaurato. Non era la prima volta che vi salivano. Parecchie di loro vi avevano fatto dei corsi in preparazione al matrimonio, ma quella volta era un'occasione speciale. Le coppie, provenienti da tutto il Ticino, avevano una grande voglia d'impegnarsi per il bene della famiglia e di aprire anche nel nostro paese uno di quei centri di consulenza che stavano sorgendo nella vicina Lombardia. Aprire un centro voleva dire affittare dei locali, assumere almeno una segretaria, presentarsi con un nome e un'identità al pubblico; in altre parole istituzionalizzarsi. Non erano persone - quelle coppie - che amavano molto incanalarsi entro statuti, ma dovevano fare di necessità virtù. Nacque così Comunità Familiare, un'associazione aperta a tutti coloro che avevano voglia di lavorare nel sociale. Si aprì il progetto consultorio a Lugano. Poi dei gruppi di mamme diedero vita ai Centri assistenza bambini e alle ludoteche. Molti giovani animano ancora oggi delle colonie integrate. Una coppia aprì un "foyer" per bambini e giovani. Parecchi membri iniziarono molto presto a impegnarsi nella lotta contro la droga. Il comitato che nacque in quelle riunioni di Bigorio s'impegnò soprattutto in una politica trasversale ai partiti. Non vi erano progetti di leggi che parlassero di famiglie e socialità che non venissero studiati e, attraverso l'azione di alcuni membri di Comunità Familiare che sedevano in Gran Consiglio, venissero formulate delle proposte. Il segretario generale dell'associazione - il sottoscritto - fu chiamato in diverse commissioni cantonali per la preparazione e il controllo dell'osservanza di queste leggi tutt'ora in vigore. Ecco in sintesi la storia dei 40 anni di vita di Comunità Familiare che, sabato scorso a Primadengo, ha festeggiato il suo quarantesimo. Lunga vita a questa benemerita Associazione che mantiene lo spirito di una grande famiglia.



domenica, maggio 29, 2011


Cristianesimo di convinzione
Molte persone dicono che il cristianesimo come religione è ormai alle corde e che da noi sussiste solo un cristianesimo come cultura. Costoro si chiedono se viviamo in una società che in Occidente si chiama ancora cristiana, quando i precetti fondamentali del cristianesimo vengono sistematicamente disattesi. Inoltre sembra che la pratica religiosa stia scendendo sempre di più. Ma proprio in questa società secolarizzata e laicizzata - uso questi termini in senso negativo, pur cosciente che hanno una valenza anche positiva - sta rinascendo un cristianesimo di adesione e di convinzione. Un esempio di questa rinascita la sto notando nella mia chiesa, dove noto un aumento di partecipazione alla Messa da parte degli uomini. Se prima alle Messe si avevano quasi esclusivamente donne, ora capita che gli uomini sono al 50% e, la scorsa estate - alle volte -, superavano addirittura il numero delle donne.
Questo cosa vuol dire?
Per me, che sta cessando un cristianesimo di tradizione, durante il quale la partecipazione alla Messa domenicale era appannaggio quasi unicamente femminile, per dar posto a un cristianesimo di convinzione, dove anche l'uomo sente la necessità di ritrovarsi in Comunità, di ascoltare la parola di Dio, di celebrare l'Eucarestia ricevendo la Comunione.
Altro esempio: è vero che non si battezzano più tutti i neonati, ma è altrettanto vero che aumentano i battesimi degli adulti, fatti con più preparazione e convinzione di quello che parecchi genitori fanno ancora quando chiedono il Battesimo dei loro figli, dimostrando che per loro il rito è una specie di magia, invece di essere una tappa di impegno ed un rinnovamento del proprio cristianesimo. Diminuiscono anche i matrimoni in chiesa, ma i fidanzati che incontro nei corsi di preparazione s'impegnano ad approfondire il senso del sacramento e a celebrarlo con convinzione. Ecco perché con la liturgia mi sento di ripetere "in alto i nostri cuori".
La speranza è l'ultima cosa che può morire e, anche se morisse, è pronta a risorgere.

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